Goethe ci ricorda che “parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte”. Il vero leader deve però fare qualcosa in più: dimostrare di aver ascoltato davvero, e a fondo. Come? Ricordando.
Qualche tempo fa, ho fatto formazione al personale di un ospedale privato in provincia di Bologna. Il team stava vivendo un momento di grande confusione organizzativa a causa di numerosi cambiamenti interni e di conflitti interpersonali non affrontati.
Un giorno il nuovo dirigente del dipartimento fu apertamente accusato da un infermiere di non conoscere nemmeno il nome di ciascun collaboratore. Il dirigente aveva assunto quell’incarico da appena cinque mesi ed era spesso oggetto di attacchi indiretti e subdoli, ai quali tuttavia non replicava mai. Davanti a quell’accusa, però, si alzò in piedi e fornì le generalità dei diciassette presenti alla riunione, aggiungendo per ciascuno una caratteristica precisa della sua personalità. Conoscevo quelle persone da tre mesi e le incontravo due mattine a settimana, eppure non avrei saputo essere così precisa e puntuale. Alla fine calò un silenzio attonito che il dirigente ruppe nuovamente solo per concludere con queste parole: “Imparate ad osservare e ad ascoltare. Il segreto delle relazioni è tutto lì”; le pronunciò con un tono asciutto ma per nulla arrogante, fermo ma non severo. Ai miei orecchi quell’esortazione a sospendere il giudizio risuonò come il proclama di un vero leader.
Da quel giorno di fronte a ogni nuovo gruppo di formazione che incontro mi ripeto mentalmente quel monito: osservare ed ascoltare. Ma, soprattutto, ricordare. Sì, perché credo che il ricordo dell’altro rappresenti una forma di sommo rispetto in ambito lavorativo; ricordiamo infatti solo ciò che abbiamo ascoltato davvero. Ma per fare nostro questo tipo di ascolto e giungere alla forma di ricordo che ho in mente occorre che l’altro, ai nostri occhi, abbia importanza. Tutto ci racconta qualcosa di chi abbiamo di fronte: i suoi modi, il suo stile, i gesti, le emozioni, le insicurezze, le ostentazioni, le parole che sceglie di usare; tutto merita ascolto.
Per una comprensione profonda, è utile concentrarci non solo su ciò che accade o su quanto viene detto o fatto ma anche sul modo, sul come quel qualcosa viene fatto o raccontato, per coglierne tutte le sfumature emotive. Quante volte alla domanda “Come stai?” abbiamo risposto “Bene, grazie” anche se, dentro, una parte di noi stava andando a fuoco. Perché allora una risposta tanto evasiva ed inautentica? Semplice: perché la domanda non indaga davvero il nostro stato d’animo e non prevede una risposta diversa da un effimero “Tutto bene”. Non c’è vera risposta, insomma, perché non c’è vero ascolto. Al contrario, se chi domanda dimostra di saper ascoltare, chi risponde sarà ben disposto ad aprirsi e a concedere l’opportunità di essere compreso.
L’ascolto rappresenta una componente fondamentale della comunicazione verbale; richiede la messa in campo di innumerevoli abilità personali: sensibilità, comprensione, intelligenza, empatia. Implica inoltre l’accettare che qualcun altro sia al centro dell’attenzione. È chi ascolta attivamente a ricoprire il ruolo di facilitatore della comunicazione: è sua la responsabilità di inviare feedback continui, suo il compito cruciale di favorire l’insorgere di un sentimento di fiducia reciproca.
Tutto questo è ancora più vero – e più delicato- se parliamo di un leader e delle persone che ha il compito di guidare. In epoca industriale e post-industriale il leader in azienda era spesso uno solo, e generalmente coincideva con l’imprenditore; questi generava idee ed innovazione per tutti, delegando agli altri l’implementazione delle sue (brillanti) idee. Col passare del tempo i cicli di innovazione si sono drammaticamente accorciati e i leader si sono trovati nella necessità di attingere idee e innovazione altrove. Parallelamente il livello medio di scolarizzazione e il livello di competenza dei collaboratori sono cresciuti, contribuendo alla nascita di una leadership partecipativa.
Il concetto di partecipazione è bidirezionale: da un lato i leader non riescono più da soli a generare innovazione e cambiamenti sufficienti a costruire un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo; dall’altro ci sono collaboratori sempre più preparati che vogliono essere ascoltati e coinvolti. Se questo non accade sarà difficile (se non impossibile) aspettarsi da loro proattività, valore aggiunto, senso di responsabilità e nuove idee.
Urge, dunque, una nuova generazione di leader, capaci di gestire strutture organizzative sempre più orizzontali e collaboratori sempre più competenti. Urge che il team diventi l’unità organizzativa di base delle aziende. C’è bisogno che competenze diverse siedano allo stesso tavolo, insieme a leader sempre più collaborativi, capaci di coinvolgere gli altri e di inquadrare il lavoro in una prospettiva più ampia. Soprattutto, c’è bisogno di leader capaci di cogliere l’importanza delle relazioni e dei loro risvolti emotivi, capaci cioè di ascoltare e di osservare in modo attivo, e di promuovere un senso di appartenenza al gruppo forte e incontrovertibile.